E' notte, inverno rovinoso.
Un poco sollevi le tendine, e guardi.
Vibrano i tuoi capelli, selvaggi,
la gioia ti dilata improvvisa l'occhio nero;
che quello che hai veduto
- era un'immagine della fine del mondo -
ti conforta l'intimo cuore, lo fa caldo e pago.
Un uomo si avventura per un lago
di ghiaccio, sotto una lampada storta.
La giovanezza cupida di pesi
porge spontanea al carico le spalle.
Non regge. Piange di malinconia.
Vagabondaggio, evasione, poesia,
cari prodigi sul tardi!
Sul tardi l'aria si affina
ed i passi si fanno leggeri.
Oggi è il meglio di ieri,
se non è ancora la felicità.
Assumeremo un giorno la bontà
del suo volto, vedremo alcuno sciogliere
come un fumo il suo inutile dolore.
Io sono come quella foglia - guarda -
sul nudo ramo, che un prodigio ancora
tiene attaccata.
Negami dunque. Non ne sia rattristata
la bella età che a un'ansia ti colora,
e per me a slanci infantili s'attarda.
Dimmi tu addio, se a me dirlo non riesce.
Morire è nulla; perderti è difficile.
Non dormo. Vedo una strada, un boschetto,
che sul mio cuore come un’ansia preme;
dove si andava, per star soli e insieme,
io e un altro ragazzetto.
Era la Pasqua; i riti lunghi e strani
dei vecchi. E se non mi volesse bene
pensavo e non venisse più domani?
E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo verso la sera;
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore;
il primo; e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
storie di, credo, quindici anni fa?
C’era, un po’ in ombra, il focolaio; aveva
arnesi, intorno, di rame. Su quello
si chinava la madre col soffietto,
e uscivano faville.
C’era nel mezzo una tavola dove
versava antica donna le provviste.
Il mattarello vi allungava a tondo
la pasta molle.
C’era, dipinta in verde, una stia,
e la gallina in libertà raspava.
Due mastelli, là sopra, riflettevano,
colmi, gli oggetti.
C’era, mal visto nel luogo, un fanciullo.
Le sue speranze assieme alle faville
del focolaio si alzavano. Alcuna
guarda! è rimasta.
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