Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole
ed è subito sera
COLORE DI PIOGGIA E DI FERRO
Dicevi:morte, silenzio, solitudine;
come amore, vita. Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
e il tempo colore di pioggia e di ferro
è passato sulle pietre,
sul nostro chiuso ronzio di maledetti.
Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
entri negli occhi, prima che altro vento
salga e altra ruggine fiorisca.
QUASI UN MADRIGALE
Il girasole piega a occidente
e già precipita il giorno nel suo
occhio in rovina e l'aria dell'estate
s'addensa e già curva le foglie e il fumo
dei cantieri. S'allontana con scorrere
secco di nubi e stridere di fulmini
quest'ultimo gioco del cielo. Ancora,
e da anni, cara, ci ferma il mutarsi
degli alberi stretti dentro la cerchia
dei Navigli. Ma è sempre il nostro giorno
e sempre quel sole che se ne va
con il filo del suo raggio affettuoso.
Non ho più ricordi, non voglio ricordare;
la memoria risale dalla morte,
la vita è senza fine. Ogni giorno
è nostro. Uno si fermerà per sempre,
e tu con me, quando ci sembri tardi.
Qui sull'argine del canale, i piedi
in altalena, come di fanciulli,
guardiamo l'acqua, i primi rami dentro
il suo colore verde che s'oscura.
E l'uomo che in silenzio s'avvicina
non nasconde un coltello fra le mani,
ma un fiore di geranio.
IL MIO PAESE E' L'ITALIA
Più i giorni s'allontanano dispersi
e più ritornano nel cuore dei poeti.
Là i campi di Polonia, la piana dì Kutno
con le colline di cadaveri che bruciano
in nuvole di nafta, là i reticolati
per la quarantena d'Israele,
il sangue tra i rifiuti, l'esantema torrido,
le catene di poveri già morti da gran tempo
e fulminati sulle fosse aperte dalle loro mani,
là Buchenwald, la mite selva di faggi,
i suoi forni maledetti; là Stalingrado,
e Minsk sugli acquitrini e la neve putrefatta.
I poeti non dimenticano. Oh la folla dei vili,
dei vinti, dei perdonati dalla misericordia!
Tutto si travolge, ma i morti non si vendono.
Il mio paese è l'Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.
ALLE FRONDE DEI SALICI
E come potevano noi cantare
Con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.
SENZA MEMORIA DI MORTE
Primavera solleva alberi e fiumi;
la voce fonda non odo,
in te perduto, amata.
Senza memoria di morte,
nella carne congiunti,
il rombo d'ultimo giorno
ci desta adolescenti.
Fatta ramo
fiorisce sul tuo fianco
la mia mano...
Salvatore Quasimodo biografia
Salvatore Quasimodo nasce a Modica (Ragusa)
il 20 agosto del 1901 e trascorre gli anni dell'infanzia in piccoli
paesi della Sicilia orientale, seguendo il padre che era
capostazione delle Ferrovie dello Stato. Subito dopo il catastrofico
terremoto del 1908 va a vivere a Messina, dove Gaetano Quasimodo era
stato chiamato per riorganizzare la locale stazione. Prima dimora
della famiglia, come per tanti altri superstiti, furono i vagoni
ferroviari.
Un'esperienza di dolore tragica e precoce che avrebbe lasciato un
segno profondo nell'animo del poeta. Nella città dello Stretto
Quasimodo compie gli studi fino al conseguimento nel 1919 del
diploma presso l'Istituto Tecnico "A. M. Jaci", sezione
fisico-matematica.
All'epoca in cui frequenta lo "Jaci" risale un evento di
fondamentale importanza per la sua formazione umana e artistica:
l'inizio del sodalizio con Salvatore Pugliatti e Giorgio La Pira,
che sarebbe poi durato tutta la vita. Negli anni messinesi Quasimodo
comincia a scrivere versi, che pubblica su riviste simboliste
locali.
Nel 1919, appena diciottenne, lascia la Sicilia e si stabilisce a
Roma.
In questo periodo continua a scrivere versi che pubblica su riviste
locali soprattutto di Messina, e trova il modo di studiare in
Vaticano il latino e il greco presso monsignor Rampolla del Tindaro.
L'assunzione nel 1926 al Ministero dei Lavori Pubblici, con
assegnazione al Genio Civile di Reggio Calabria, assicura finalmente
a Quasimodo la sopravvivenza quotidiana.
L'attività di geometra, per lui faticosa e del tutto estranea ai
suoi interessi letterari, sembra allontanarlo sempre più dalla
poesia e, forse per la prima volta, Quasimodo deve considerare
naufragate per sempre le proprie ambizioni poetiche.
Tuttavia, il riavvicinamento alla Sicilia, i contatti ripresi con
gli amici messinesi della prima giovinezza, soprattutto il
"ritrovamento" con Salvatore Pugliatti, insigne giurista e fine
intenditore di poesia, servono a riaccendere la volontà latente, a
far sì che Quasimodo riprenda i versi del decennio romano, per
limarli e aggiungerne di nuovi.
Nel 1929 Quasimodo si reca a Firenze, dove il cognato Elio Vittorini
lo introduce nell'ambiente di "Solaria", facendogli conoscere i suoi
amici letterati, da Alessandro Bonsanti, ad Arturo Loira, a Gianna
Manzini, a Eugenio Montale, che intuiscono subito le doti del
giovane siciliano. E proprio per le edizioni di "Solaria" esce nel
1930 "Acque e terre", il primo libro della storia poetica di
Quasimodo, accolto con entusiasmo dai critici dell'epoca, che
salutano la nascita di un nuovo poeta.
Nel 1932 vince il premio dell'Antico Fattore, patrocinato dalla
rivista e nello stesso anno, per le edizioni di "circoli", esce Oboe
sommerso.
Nel 1934 Quasimodo si trasferisce a Milano, che segna una svolta
particolarmente significativa nella sua vita e non solo artistica.
Accolto nel gruppo di "corrente" si ritrovò al centro di una sorta
di società letteraria, di cui fanno parte poeti, musicisti, pittori,
scultori.
Nel 1936 Quasimodo pubblica con G. Scheiwiller Erato e Apòllion un
libro fortunato con cui si conclude la fase ermetica della sua
poesia. Nel 1938 lascia il lavoro al Genio Civile e inizia
l'attività editoriale come segretario di Cesare Zavattini, che più
tardi lo farà entrare nella redazione del settimanale il "Tempo".
Nel 1938, per le "edizioni primi piani" esce la prima importante
raccolta antologica Poesie, con un saggio introduttivo di Oreste
Macrì, che rimane tra i contributi fondamentali della critica
quasimodiana. Il poeta intanto collabora alla principale rivista
dell'ermetismo, la fiorentina "letteratura".
Nel 1939-40 Quasimodo mette a punto la traduzione dei Lirici greci, che esce nel 1942
nelle edizioni di "corrente" e che, per il suo valore di originale
opera creativa, sarà poi ripubblicata e riveduta più volte.
Sempre nel 1942 presso Mondadori esce "Ed è subito sera".
Nel 1941 gli viene concessa, per chiara fama, la cattedra di
Letteratura Italiana presso il Conservatorio di musica "G. Verdi" di
Milano. Insegnamento che terrà fino all'anno della sua morte.
Durante la guerra, nonostante mille difficoltà, Quasimodo continua a
lavorare alacremente: mentre scrive versi, traduce molti Carmina di
Catullo, parti dell'Odissea, Il fiore delle Georgiche, il Vangelo
secondo Giovanni, Epido re di Sofocle. Numerosissime le sue
traduzioni: da Ruskin, Eschilo, Shakespeare, Molière, Dall'Antologia
Palatina, Dalle Metamorfi di Ovidio e ancora da Cummings, Neruda,
Aiken, Euripide, Eluard.
Nel 1947 esce la sua prima raccolta del dopoguerra, "Giorno dopo
giorno", libro che segna una svolta nella poesia di Quasimodo, al
punto che si parla di un primo e un secondo Quasimodo. Di fatto
l'esperienza tragica e sconvolgente della seconda guerra mondiale,
il profondo convincimento che l'imperativo categorico era quello di
"rifare l'uomo" e che ai poeti spetta un ruolo importante in questa
ricostruzione, fanno sì che Quasimodo senta inadeguata ai tempi una
poesia troppo soggettiva, e si apre a un dialogo più aperto e
cordiale, soffuso di umana pietà, rimanendo però fedele al suo
rigore, al suo stile.
Nel 1949 esce presso la Mondadori "La vita non è un sogno", ancora
ispirato, anche se un po' stancamente, al clima resistenziale.
Nel 1950 Quasimodo ricevette il premio San Babila e nel 1953 l'Etna-Taormina
insieme a Dylan Thomas.
Nel 1954 esce "Il falso e vero verde"; un libro di crisi, con cui
inizia una terza fase della poesia di Quasimodo, che rispecchia un
mutato clima politico. Dalle tematiche prebelliche e postbelliche si
passa a poco a poco a quelle del consumismo, della tecnologia, del
neocapitalismo, tipiche di quella "civiltà dell'atomo" che il poeta
denuncia mentre si ripiega su se stesso e muta ancora una volta la
sua strumentazione poetica. Il linguaggio ridiventa complesso, più
scabro, il ritmo si fa più secco, suscitando perplessità in quanti
vorrebbero il poeta sempre uguale a se stesso.
Segue nel 1958 "La terra impareggiabile",
premio Viareggio. Ancora nel 1958 Quasimodo mette a punto
l'antologia della Poesia italiana del dopoguerra e nello stesso anno
compie un viaggio in URSS, nel corso del quale viene colpito da
infarto, cui segue una lunga degenza all'ospedale Botkin di Mosca.
Nel 1959 Salvatore Quasimodo riceve il premio Nobel per la
letteratura. Al Nobel seguiranno moltissimi scritti e articoli sulla
sua opera, con un ulteriore incremento delle traduzioni.
Nel 1960, dall'Università di Messina gli viene conferita la laurea
honoris causa.
Sempre nel 1960 sul settimanale "Le Ore" gli viene affidata una
rubrica di "colloqui coi lettori", che terrà fino al 1964, quando
passerà al "tempo" con una rubrica simile.
Nel 1966 Quasimodo pubblica il suo ultimo libro "Dare e avere"; un
titolo emblematico per una raccolta che è un bilancio di vita, quasi
un testamento spirituale.
Nel 1967 l'Università di Oxford gli conferisce la laurea honoris
causa. Colpito da ictus il 14 giugno 1968 ad Amalfi, dove si trova
per presiedere un premio di poesia, muore sull'auto che lo trasporta
a Napoli.