Viveva con sua madre in Cornovaglia:
un dì trasecolò nella boscaglia.
Nella boscaglia un dì, tra cerro e cerro
vide passare un uomo tutto ferro.
Morvàn pensò che fosse San Michele:
s'inginocchiò: Signore San Michele,
non mi far male, per l'amor di Dio!
Né mal fo io, né San Michel son io.
No: San Michele non poss'io chiamarmi:
cavalier, sì: son cavaliere d'armi.
Un Cavaliere? Ma che cosa è mai?
Guardami o figlio e che cos'è saprai.
Che è codesto lungo legno greve?
La lancia: ha sete, e dove giunge, beve.
Che è codesta di cui tu sei cinto?.
Spada, se hai vinto; croce se sei vinto.
Di che vesti? La veste è pesa e dura.
E' ferro. Figlio, questa è l'armatura.
E tu nascesti già così coperto?.
Rise e rispose il cavalier: No, certo.
E chi la pose, dunque, indosso a te?
Chi può. Chi può?. Ma, caro figlio, il re!
Il fanciullo tornò dalla sua mamma,
e le saltò sulle ginocchia: Mamma,
mammina (cinguettò), tu non lo sai!
Ho visto quello che non vidi mai!
un uomo bello più del San Michele
ch'è in chiesa, tra il chiaror delle candele!.
Non c'è uomo più bello , figlio mio,
più bello, no, d'un angelo di Dio.
Ma sì, ce n'è, mammina, se permetti,
ce n'è mammina, cavalier son detti.
E io, mammina, voglio andar con loro,
e aver veste di ferro e sproni d'oro.
La madre a terra cadde come morta,
che già Morvàn usciva dalla porta;
Morvàn usciva e le volgea le spalle,
ed entrò difilato nelle stalle;
nelle stalle trovò sol un ronzino:
lo sciolse, vi montò sopra: in cammino.
Egli partì, ne salutò persona
eccolo fuori, ecco che batte e sprona:
eccolo già lontano dal castello,
dietro quell'uomo, ch'era così bello.
Dopo dieci anni, dieci tutti intieri,
Breus, il cavalier de' cavalieri,
sostò pensoso avanti a quel castello.
Era fradicio e rotto il ponticello.
Entrò pensoso nella corte antica:
c'era tant'erba, c'era tanta ortica.
Il rovo vi crescea come una siepe,
e la muraglia piena era di crepe.
L'edera aveva la muraglia invasa:
l'erba copria la soglia della casa.
E l'uscio era imporrito e tristo a mo'
di tomba. Egli picchiò, picchiò, picchiò.
Ecco alfine una donna, ecco una donna
antica e cieca, che gli aprì. Voi, nonna,
mi potete albergar per questa notte?.
Albergar vi si può per questa notte,
albergar vi si può di tutto cuore,
ma l'albergo non è forse il migliore.
Ché questa casa è tutta in abbandono
da che il figlio partì, dieci anni or sono.
Era discesa una donzella in tanto,
che appena lo guardò, ruppe in pianto.
Perché piangete, buona damigella?
perché piangete, cara damigella?
Io voglio dirvi, sire cavaliere,
io voglio dirvi, che mi fa dolere.
Un mio fratello che dieci anni fa
(ora sarebbe della vostra età),
ci abbandonò per farsi cavaliere.
Io piango appena vedo un cavaliere.
Se vedo un cavalier presso il castello,
piango pensando al mio dolce fratello.
Non avete la madre, o damigella?
non un altro fratello? una sorella?
Nessuno... almeno ch'io li veda in viso:
son, fratelli e sorelle, in paradiso.
Anche la mamma l'ha chiamata iddio
non c'è più che la nutrice ed io.
La mia madre morì dal dispiacere
quand'è partì per farsi cavaliere.
Ecco il suo letto presso il limitare,
ecco il suo seggio presso il focolare.
La sua crocetta porto sopra me.
Pel mio povero cuore altro non c'è.
Mise un singhiozzo il cavalier d'un tratto.
Ella il pallido alzò viso disfatto.
La damigella alzò con meraviglia
gli occhi che aveano il pianto sulle ciglia.
Iddio la mamma ancora a voi l'ha presa,
ch'ora piangete, che m'avete intesa?
Ancora a me la mamma prese Iddio;
ma chi gli disse: Prendila! fui io.
Voi? Ma chi siete? Qual'è il vostro nome?.
Morvàn il nome, Breus il soprannome.
O sorellina, io son pien di gloria:
ogni giorno ho contata una vittoria:
ma se potevo indovinar quel giorno,
che non l'avrei veduta al mio ritorno,
o sorellina, non sarei partito!
o sorellina, non sarei fuggito!
Oh! per vederla qui sul limitare,
per rivederla presso il focolare,
per abbracciare qui con te pur lei
le mie vittorie tutte le darei:
sarei felice, pur ch'a lei vicino,
di strigliar tuttavia quel mio ronzino!
Lo so: non era nella valle fonda
suon che s'udia di palafreni andanti:
era l'acqua che giù dalle stillanti
tegole a furia percotea la gronda.
Pur via e via per l'infinita sponda
passar vedevo i cavalieri erranti;
scorgevo le corazze luccicanti,
scorgevo l'ombra galoppar sull'onda.
Cessato il vento poi, non di galoppi
il suono udivo, né vedea tremando
fughe remote al dubitoso lume;
ma voi solo vedevo, amici pioppi!
Brusivano soave tentennando
lungo la sponda del mio dolce fiume
Libri di Giovanni Pascoli |
Il latino del Pascoli. Saggio sul bilinguismo poetico Traina Alfonso, Pàtron |
«Uno strano lavorio di ricordi». Autografi pascoliani Edisud Salerno |
Pascoli Bonito Vito M., Liguori |
Bertini dipinge Pascoli. Poesia, luce e colore nella
valle del Serchio. Catalogo della mostra (Barga, 14 luglio-2 settembre
2007). Ediz. italiana e inglese Polistampa |
Pascoli e la cultura del Novecento Marsilio |
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