O Giovinezza, ahi me, la tua corona
su la mia fronte già quasi è sfiorita.
Premere sento il peso della vita,
che fu si lieve, su la fronte prona.
Ma l'anima nel cor si fa più buona,
come il frutto maturo. Umile e ardita,
sa piegarsi e resistere; ferita,
non geme; assai comprende, assai perdona.
Dileguan le tue ultime aurore,
O Giovinezza; tacciono le rive
poi che il torrente vortice dispare.
Odo altro suono, vedo altro bagliore.
Vedo in occhi fraterni ardere vive
lacrime, odo fraterni petti ansare.
L'ALA SUL MARE
Ardi, un'ala sul mare è solitaria.
Ondeggia come pallido rottame.
E le sue penne, senza più legame,
sparse tremano ad ogni soffio d'aria.
Ardi, veggo la cera! E' l'ala icaria,
quella che il fabro della vacca infame
foggiò quando fu servo nel reame
del re gnòssio per l'opera nefaria.
Chi la raccoglierà? Chi con più forte
lega saprà rigiugnere le penne
sparse per ritentare il folle volo?
Oh del figlio di Dedalo alta sorte!
Lungi dal medio limite si tenne
il prode, e ruinò nei gorghi solo.
NELLA BELLETTA (*)
Nella belletta i giunchi hanno l'odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d'agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m'appresso.
Le bolle d'aria salgono in silenzio.
(*) belletta = fanghiglia
IN SUL VESPERO
In sul vespero, scendo alla radura.
Prendo col laccio la puledra brada
che ancor tra i denti ha schiuma di pastura.
Tanaglio il dorso nudo, alle difese;
e per le ascelle afferro la naiàda,
la sollevo, la pianto sul garrese.
Schizzan di sotto all'ugne nel galoppo
gli aghi i rami le pigne le cortecce.
Di là dai fossi, ecco il triforme groppo
su per le vampe delle fulve secce.
LA SABBIA DEL TEMPO
Come scorrea la calda sabbia lieve
per entro il cavo della mano in ozio
in cor sentì che il giorno era più breve.
E un’ansia repentina il cor m’assale
per l’appressar dell’umido equinozio
che offusca l’oro delle piagge salse.
Alla sabbia del Tempo urna la mano
era, clessidra il cor mio palpitante,
l’ombra crescente di ogni stelo vano
quasi ombra d’ago in tacito quadrante
Gabriele D'Annunzio biografia
Gabriele D’Annunzio nasce nel 1863 da una famiglia della buona borghesia abruzzese e dal 1874 al 1881 frequenta il Collegio Cigognini di Prato.
Sono anni in cui acquisisce una robusta formazione sui classici, che studia con grande impegno, ma in cui mostra già il suo carattere irrequieto ed insofferente. Esordisce assai precocemente nel mondo della poesia con la raccolta di versi “Primo vere” nel 1879.
Dopo questo primo successo, si trasferisce a Roma per frequentare la facoltà di lettere, ma presto abbandona gli studi universitari inserendosi nella vita mondana e letteraria della capitale ed abbandonandosi ad una frenetica vita fatta di avventure galanti, duelli, collaborazioni giornalistiche, produzioni
poetiche e narrative.
Nel 1883, a soli vent'anni, soddisfa le sue ambizioni aristocratiche sposando la duchessina Maria di Gallese. La storia con Maria di Gallese, dalla quale ha
tre figli, dura fino al 1890.
Pubblica “Canto Novo” (1882) e le novelle “Terra vergine” (1882), “Libro delle vergini” (1884) e “San Pantaleone” (1886) che verranno in seguito riunite nelle “Novelle della Pescara” (1902).
Nel 1889 esce il suo primo romanzo “Il piacere” in cui l’autore si identifica con il protagonista Andrea Sperelli, intellettuale che vota la propria vita ad un ideale di estetismo decadente fondato sul “vivere inimitabile”, sul gusto del bello e del piacere.
D’Annunzio non si esime, però, dal criticare il proprio alter ego segnalandone la volontà debolissima, l’arrendevolezza nei confronti degli istinti e l’inettitudine alla vita.
La vita dispendiosa e mondana che conduce a Roma lo porta ad accumulare debiti finché nel 1891 è costretto ad abbandonare la città eterna ed a trasferirsi a Napoli.
Nel capoluogo campano vive due anni in “splendida miseria” durante i quali collabora con il “Corriere di Napoli” ed ha una relazione con la principessa Maria Gravina Cruyllas Anguissola, che è sposata con un ufficiale dell’esercito. I due amanti hanno una figlia e subiscono una condanna di lieve entità per adulterio. Nel 1892 esce “L’innocente”, storia di un infanticidio e di una complicata psicologia omicida in cui si sente l’influenza di Tolstoj e Dostoevskij.
Nel 1894 a Venezia incontra Eleonora Duse. Nasce una travolgente storia d’amore tra i due, quantunque il poeta sia ancora legato alla Gravina (dalla quale nel 1897 ha un altro figlio).
L’unione con la grande attrice ha riflessi anche a livello artistico: a lei si ispira “La città morta”, “Il fuoco” ripercorre la loro storia d'amore e per il teatro D’annunzio scriverà una serie di testi (“Sogno di un mattino di primavera”, “Sogno di in tramonto d’autunno” e “La Gioconda”) con personaggi femminili tagliati su misura per la Duse.
Nel 1898 D’annunzio abbandona la vita in famiglia e si trasferisce a Settignano, sulle colline di Firenze, in una villa (“la Capponcina”) dove vive fastosamente tra arredi preziosi mentre la Duse abita in una villetta attigua (“la Porziuncola”). Intanto con “Le Vergini delle rocce” (1896), aveva realizzato quello che Carlo Salinari definirà il “Manifesto politico del Superuomo”.
Nel 1900 compie un gesto clamoroso in parlamento: lascia la maggioranza e si unisce all’estrema sinistra. All’insegna del mito del Superuomo progetta la sua opera più ambiziosa “Le Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi” divisa in cinque libri: “Maia” (1903), “Elettra” (1904), “Alcyone” (1903) cui seguirà “Merope” (1912) e “Asterope” (1934).
In “Maia” magnifica la vita come “dono terribile di Dio”, canta la gioia di vivere e la prefigurazione di una rigenerazione dell’umanità attraverso l’industria e il capitale, “Elettra” attraverso l’esaltazione degli eroi di guerra, della romanità e del Risorgimento prefigura i futuri destini coloniali ed imperiali dell’Italia, nell’ “Alcyone” rappresenta un tuffo di esaltante sensualità nella felicità e nel calore della divina estate in una unione panica con la natura.
Il 2 marzo 1904 viene messo in scena a Milano il capolavoro teatrale di D’annunzio “La figlia di Iorio”, tragedia ambientata in un mondo primitivo e selvaggio popolato da pastori “ ’briachi di sole e di vino”.
Nel 1910 esce “Forse che sì forse che no” in cui i simboli della modernità (automobile ed aeroplano) diventano i mezzi per l’espansione dell’ego del nuovo superuomo, il coraggioso pioniere della velocità, automobilista ed aviatore.
Ma la sua dispendiosa vita presenta il conto allo scrittore e poeta abruzzese costringendolo a riparare in Francia per fuggire dai creditori. Tra il 1911 ed il 1914 invia al Corriere della Sera “Le faville del maglio”.
Ma ormai lo scoppio della prima guerra mondiale offre al vate l’opportunità di fare della sua esistenza un’opera straordinaria attraverso il compimento di gesta eroiche che lo consegnino alla storia della patria: partecipa alla beffa di Buccari (10-11 febbraio 1918) ed è protagonista del volo
su Vienna (9 agosto 1918).
Del periodo che va dal 1919 al 1920 è, invece, l’impresa di Fiume. Nel 1921 si ritira a
Gardone, chiudendosi nello splendido isolamento della villa del “Vittoriale degli italiani”, da dove guarda con simpatia all’avvento del fascismo e dove si spegne il 1° marzo 1938.