Vasco Pratolini breve biografia e cenni sui suoi libri
Vasco Pratolini
(1913-1991) nasce in un quartiere di Firenze (San Frediano), Pratolini perse la madre molto piccolo, vivendo così con i nonni materni e, in seguito, da solo, lavorando appena possibile come operaio in una bottega di tipografi. Ma fu anche
cameriere, venditore ambulante e rappresentante.
Mentre Pratolini osservava i gesti e le parole, le abitudini della gente di quartiere che poi avrebbe fatto parlare nei suoi romanzi, andava formando piano piano da autodidatta la propria cultura letteraria.
Letture disordinate, che rispondevano a un’unica vocazione: diventare scrittore.
Pratolini aveva il desiderio di raccontare.
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E incontrò chi volle credere in lui. Tramite il pittore Ottone Rosai, iniziò a scrivere di politica sulla rivista «Il Bargello», ma fu soprattutto Elio Vittorini che lo portò dalla politica alla
letteratura anche se, sia letteratura che politica, erano già presenti nella rivista «Campo di Marte», della quale lo stesso Pratolini fu redattore
assieme al poeta Alfonso Gatto, e che fu soppressa dopo un anno dal regime fascista.
Pratolini fu un contestatore sentimentale che con i toni della propria cronaca personale e dei propri ricordi fu in grado di costruire, fin dalle prime esperienze narrative, storie corali dove il “noi” oltrepassava l’“io” e dove ai rapporti affettivi si accompagnava una progressiva presa di coscienza della classe proletaria e popolare.
“Il tappeto verde”, “Le amiche”, “Il Quartiere”, fino a “Cronaca familiare” e a “Cronache di poveri amanti”, scritti negli anni Quaranta, sono opere animate da uno sguardo d’amore, da legami affettivi con la propria gente; da un dolore privato, come la scomparsa del fratello, in “Cronaca
familiare”, a un dolore collettivo e, soprattutto, a una minaccia del Male incombente, secondo una
visione della vita sempre tesa a una sorta di manicheismo, con un’ingiustizia da riscattare in nome del Bene e una liberazione dal Male nel mondo.
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Pratolini aveva già riscosso una certa fama con “Cronache di poveri amanti” — che gli valse il premio «Libera Stampà» — e aveva avuto una breve esperienza giornalistica a Milano.
Il ricordo di Firenze cominciava lentamente a sfumare. Decise allora di scrivere la trilogia “Una storia italiana”: un affresco storico che riuniva il mondo operaio (“Metello”),
il mondo borghese (“Lo scialo”) e quello degli intellettuali (“Allegoria e derisione”). Una storia che fu in seguito definita dai critici ancora «troppo fiorentinà» e ancora «troppo poco italianà».
Certo è che il cinema lo ha premiato; che, oltre alle sue parole, rimangono le immagini dei film tratti dai suoi libri, da Carlo Lizzani per “Cronache di poveri amanti” (1954) a Valerio Zurlini per “Cronaca familiare” (1962) — Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia — a Mauro Bolognini per “Metello” (1970). Oltre alle sceneggiature, alle quali lo stesso scrittore collaborò, da
“Paisà” di Roberto Rossellini a “Rocco e i suoi fratelli” di Luchino Visconti a “Le quattro giornate di Napoli” di Nanni Loy.
Cronache quotidiane appunto, rapporti d’amore e di odio.