Gabriele D'Annunzio breve biografia e contenuti dei suoi libri
Gabriele D'Annunzio è nato
a Pescara il 12 marzo 1863 da famiglia borghese, che viveva grazie
alla ricca eredità.
Dopo gli studi liceali nel collegio Cicognini di Prato, distinguendosi
sia per la sua condotta indisciplinata e per la smania di primeggiare,
nel 1881 si iscrive alla facoltà di Lettere a Roma.
Mentre era ancora un liceale
compose il suo primo libro di versi "Primo Vere" pubblicata a spese
del padre, ottenendo un precoce successo che gli aprono le porte ai
giornali letterari dell'epoca.
Trasferitosi a Roma per frequentare l'Università conduce una vita
sontuosa, ricca di amori e avventure dedicandosi, invece che agli studi
al giornalismo ed alla composizione di opere di varia natura e valore,
senza arrivare alla laurea, ma diventando uno degli interpreti più abili
delle correnti di pensiero e delle mode letterarie europee, tra le quali
l'esasperato sensualismo, l'estetismo raffinato e paganeggiante.
Dopo il successo di "Canto novo" e di "Terra vergine" (1882), nel 1883
hanno grande risonanza la fuga e il matrimonio di Gabriele con la
duchessina Maria Hardouin di Gallese, unione da cui nasceranno tre
figli, ma che, a causa dei suoi continui tradimenti, durerà solo fino al
1890.
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Compone i versi "Intermezzo di rime" ('83), la cui «inverecondià»
scatena un'accesa polemica; mentre nel 1886 esce la raccolta "Isaotta
Guttadàuro" ed altre poesie, poi divisa in due parti "L'Isottèo" e "La
Chimera" (1890).
Sfruttando il mercato giornalistico e orchestrando intorno alle sue
opere spettacolari iniziative pubblicitarie, il giovane D'Annunzio
diviene figura di primo piano della vita culturale e mondana romana fino
alla pubblicazione del suo primo romanzo
"Il Piacere", pubblicato nel 1889, ricco di risvolti
autobiografici che si colloca al vertice di questa mondana ed
estetizzante giovinezza romana che il Decadentismo europeo
aveva da poco concepito.
Nel 1891 assediato dai creditori D'Annunzio si trasferisce con l'amico
pittore Francesco Paolo Michetti a Napoli, dove, collabora ai giornali
locali trascorre due anni di «splendida miserià» ed intrecciando nuovi amori.
La principessa Maria Gravina Cruyllas abbandona il marito e va a vivere
con il poeta, dal quale ha una figlia, ma entro il 1893 D'Annunzio,
sempre per motivi economici, è costretto a lasciare anche Napoli per
tornare con l'amante e la figlioletta in Abruzzo.
Nel 1894 pubblica, dopo le raccolte poetiche "Le elegie romane" e "Il
poema paradisiaco" e dopo i romanzi "Giovanni Episcopo" e
"L'innocente" il suo nuovo romanzo "Il trionfo della morte" mentre
i suoi lavori cominciano a circolare anche fuori dall'Italia.
"La vergine delle rocce" pubblicato nel 1895, è il romanzo in cui si
affaccia la teoria del superuomo e che dominerà tutta la sua produzione
successiva mentre entra in politica e
viene eletto deputato, abbandonando presto la partita.
Dopo la fine del suo
legame con la Gravina, da cui ha avuto un altro figlio, il poeta si
stabilisce a Settignano, vicino a Firenze, nella villa detta La
Capponcina dove vive la nuova storia d'amore
con l'attrice
Eleonora
Duse, mentre per lei produce commedie che conquistano i maggiori teatri
italiani: "Sogno d'un mattino di primavera" ('97), "Sogno d'un tramonto
d'autunno", "La città morta" ('98)," La Gioconda" ('99), "Francesca da
Rimini" (1901), "La figlia di Jorio" (1903).
Finita la relazione con Eleonora Duse, raccontato nel romanzo «veneziano» "Il
Fuoco" (1900),
Alessandra di Rudinì diventa la sua nuova
Musa ispiratrice; intanto escono "Le novelle della Pescara" (1902) e i
primi tre libri delle "Laudi": Maia, Elettra, e Alcyone (1903).
Gli amori di Gabriele D'Annunzio, che continua ad avere difficoltà
economiche per la sua vita dispendiosa, diventano sempre più brevi: nel
1906 è la volta della contessa Giuseppina Mancini, alla quale succede la bella Nathalie de Goloubeff.
Nel 1910 D'Annunzio dà alle stampe il romanzo "Forse che sì, forse che no" e, per sfuggire
ai creditori si rifugia in Francia dove vive tra Parigi e nella villa di Arcachon,
partecipando alla sfavillante vita mondana della Belle Epoque internazionale.
Invia al Corriere della Sera le brevi prose "Le faville del
maglio", compone opere in francese, scrive la tragedia lirica "La Parisina", musicata da Mascagni, e anche
sceneggiature cinematografiche, come quella per il film "Cabiria"
(1914).
Nel 1912, a celebrazione della guerra in Libia, esce il quarto libro
delle "Laudi", Merope; il quinto, Asterope, sarà completato nel 1918 e i
restanti due, sebbene annunciati, non usciranno mai.
Nel 1915, nell'imminenza dello scoppio della prima guerra mondiale,
torna in Italia, riacquista un ruolo di primo piano, tenendo vibranti
discorsi interventistici e, traducendo nella realtà il mito letterario
di una vita inimitabile ed il gusto per i grandi gesti, partecipa ad ardite imprese belliche, ampiamente autocelebrate, come la beffa di Buccari ed il volo su Vienna.
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Alla fine della guerra, Gabriele d'Annunzio conduce una violenta
battaglia per l'annessione all'Italia dell'Istria e della Dalmazia: alla
testa di un gruppo di legionari nel 1919 marcia su Fiume e occupa la
città, istallando la Reggenza Italiana del Carnaro, che resiste pochi
mesi.
Negli anni del Fascismo, nonostante gli onori tributatigli dal regime, D'Annunzio si ritira, celebrato come
eroe nazionale, a Gardone, sul lago di Garda.
Considerato un "maestro di costume", le sue parole e i suoi atteggiamenti portarono
molti a confondere l'eroismo con la violenza e la prevaricazione, vizio
che presto contagiò i giovani fascisti.
Con l'avvicinarsi
della vecchiaia, Gabriele D'Annunzio cercò di prolungare, nella
costruzione del Vittoriale degli Italiani e nelle collezioni di oggetti
e reliquie del suo passato glorioso, la fama di "Vate".
Nella villa di Gardone, pressoché in solitudine, il vecchio esteta
trascorre una malinconica vecchiaia sino alla morte avvenuta il primo
marzo 1938.
La pioggia nel pineto
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t'illuse, che oggi m'illude,
o Ermione.
Odi? La pioggia cade
su la solitaria
verdura
con un crepitào che dura
e varia nell'aria
secondo le fronde
più rade, men rade.
Ascolta. Risponde
al pianto il canto
delle cicale
che il pianto australe
non impaura,
nè il ciel cinerino.
E il pino
ha un suono, e il mirto
altro suono, e il ginepro
altro ancóra, stromenti
diversi
sotto innumerevoli dita.
E immersi
noi siam nello spirto
silvestre,
d'arborea vita viventi;
e il tuo volto ebro
è molle di pioggia
come una foglia,
e le tue chiome
auliscono come
le chiare ginestre,
o creatura terrestre
che hai nome
Ermione.
Ascolta, ascolta. L'accordo
delle aeree cicale
a poco a poco
più sordo
si fa sotto il pianto
che cresce;
ma un canto vi si mesce
più roco
che di laggiù sale,
dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco
s'allenta, si spegne.
Sola una nota
ancor trema, si spegne,
risorge, trema, si spegne.
Non s'ode voce del mare.
Or s'ode su tutta la fronda
crosciare
l'argentea pioggia
che monda,
il croscio che varia
secondo la fronda
più folta, men folta.
Ascolta.
La figlia dell'aria
è muta; ma la figlia
del limo lontana,
la rana,
canta nell'ombra più fonda,
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su le tue ciglia,
Ermione.
Piove su le tue ciglia nere
sìche par tu pianga
ma di piacere; non bianca
ma quasi fatta virente,
par da scorza tu esca.
E tutta la vita è in noi fresca
aulente,
il cuor nel petto è come pesca
intatta,
tra le pàlpebre gli occhi
son come polle tra l'erbe,
i denti negli alvèoli
con come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta,
or congiunti or disciolti
(e il verde vigor rude
ci allaccia i mallèoli
c'intrica i ginocchi)
chi sa dove, chi sa dove!
E piove su i nostri vólti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l'anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
m'illuse, che oggi t'illude,
o Ermione.
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