La morte di Giovanni Paolo II "Lasciatemi andare alla Casa del Padre" - la frase che avrebbe detto Giovanni Paolo II, per non essere ricoverato ancora una volta.
Al Gemelli, ormai da anni, era pronta un'ala solo per lui, che lo aveva ospitato non più tardi di un mese prima. Con apparecchi per la
rianimazione, la respirazione artificiale, la stimolazione cardiaca; tutto quello che serve a un paziente gravissimo. Il papa aveva la febbre
alta, dovuta a un'infezione alle vie urinarie.
Respirava a fatica, non si nutriva più autonomamente, non parlava. Il medico Buzzonetti, per
ovvie ragioni di rispetto e di prudenza, non ha mai dato una risposta esplicita alla domanda se il papa avrebbe tratto o no giovamento da un
eventuale ricovero già la sera del 30 marzo. Di certo non lo ha mai negato.
Fatto sta che Wojtyla rimase in agonia per quasi tre giorni, assistito da apparecchiature mediche elementari (stando ai racconti, semplicemente
una bombola ad ossigeno e una flebo). Lo aveva chiesto lui? Se davvero ha pronunciato la frase "Lasciatemi andare", sembra di sì. Si può
definire "eutanasia passiva"? Cioè una pietosa cessazione di attività terapeutiche atte solo a prolungare un'agonia? Probabilmente sì. Eppure,
la dottrina della Chiesa, pur con alcuni distinguo che vedremo, non ammette l'eutanasia, neanche quella passiva. "L'eutanasia deve dirsi una
falsa pietà – scriveva Wojtyla nel '95, enciclica Evangelium Vitae – anzi una preoccupante perversione di essa: la vera compassione, infatti,
rende solidale col dolore altrui". E ancora: "Nessuno ha il diritto di sopprimere la vita di un paziente a causa della sofferenza. La
sofferenza e' sempre una chiamata a praticare l'amore misericordioso. Chi soffre non sia mai lasciato solo" (Giornata del Malato, 2004). E' il
sottile crinale tra accettazione del dolore e pietà cristiana verso un uomo già condannato che incrina le certezze della Chiesa: nel Catechismo
ufficiale, si accetta che "può essere legittima l'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate ai
risultati sperati. In questo modo non si vuole provocare la morte; si accetta il fatto di non poterla impedire."
Nessuno sa se queste erano davvero le condizioni del paziente Wojtyla. Le cure al Gemelli sarebbero state "onerose, pericolose, straordinarie o
sproporzionate"? O avrebbero tenuto in vita, magari artificialmente, il pontefice infermo per mesi o anni?
"Nessuno ha il diritto di sopprimere la vita di un paziente a causa della sofferenza. La sofferenza e' sempre una chiamata a praticare l'amore
misericordioso. Chi soffre non sia mai lasciato solo"
Nel Catechismo ufficiale, si accetta che "può essere legittima l'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o
sproporzionate ai risultati sperati. In questo modo non si vuole provocare la morte; si accetta il fatto di non poterla impedire."
Le cure al Gemelli sarebbero state "onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate"? O avrebbero tenuto in vita, magari artificialmente,
il pontefice infermo per mesi o anni? Il tema e' complesso e delicato, ma sembra quasi fatidico che proprio il corpo del massimo difensore
della "sacralità della vita", quel Wojtyla che ha combattuto per tutto il pontificato aborto, fecondazione assistita, eutanasia, ricerca sugli
embrioni, sia stato al centro del doloroso e per nulla concluso dibattito. "Lasciatemi andare", aveva sussurrato tra le lacrime degli astanti.
E se avesse potuto dirlo anche Terri Schiavo?
E la dichiarazione "De Eutanasia Iura et Bona" della congregazione per la Dottrina della Fede (anno 1980), scrive chiaramente che "Ciascuno ha
il dovere di curarsi e di farsi curare. Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare
quei rimedi che riterranno necessari o utili." Ma anche allora, si distingueva tra mezzi "proporzionati" e "sproporzionati": se un paziente è moribondo, in sostanza, è inutile accanirsi. Il papa sapeva con certezza che non avrebbe vissuto neanche un giorno in più quando chiese di
lasciarlo andare? O la sua era una struggente, umanissima invocazione a porre fine alle sofferenze di un corpo già martoriato da anni di
malattia? Resta il fatto che nelle stanze Vaticane, in quelle ore drammatiche, si decise per la certezza della morte a breve, e si tralasciò
l'estremo tentativo di rianimazione in una struttura specializzata. Un gesto di pietà umana, che forse dovrebbe far riflettere gli estensori
dei severissimi documenti che esaltano il dolore e condannano ogni tentativo di accorciarlo.
Giovanni Paolo II ha RIFIUTATO di essere attaccato a macchine che gli avrebbero PROLUNGATO la vita, e per questo è morto presto e bene. In
Vaticano non hanno battuto ciglio, perché avere un sovrano assoluto in coma o semi incosciente per mesi o anni non è cosa per una monarchia assoluta.
L'incoerenza dei preti è dimostrata IERI, con i casi Welby e Nuvoli, ed è dimostrata OGGI, luglio 2008, col caso Eluana Englaro.
Mentre la volontà del papa è stata fatta a tamburo battente, Welby e Nuvoli hanno dovuto combattere battaglie campali per vedersi riconosciuto
il diritto a rifiutare quelle stesse macchine che prolungavano una vita per loro orrenda.
Eluana, che di vita non ha più nemmeno gli stracci concessi a Welby e Nuvoli, parla per bocca dei genitori, e avrebbe voluto più o meno la
stessa cosa.
Ma un papa è un tuttologo semidio e può fare quello che vuole, mentre tutti gli altri poveri tapini, suoi sudditi in anima e corpo, devono
obbedire agli ordini suoi e della sua chiesa miliardaria.
Perciò, morte lenta e sofferenza massima, che avvicina a Dio e non crea problemi politici nelle auguste stanze del potere teocratico.
Se poi eventualmente gli interessati non sono neanche cattolici non frega niente a nessuno: qui in Italia si fa quello che dice il Vaticano e
amen.
Articolo di Paolo Giorgi pubblicato su AprileOnLine (http://www.aprileonline.it) il 29 marzo 2006
Può un'istituzione ecclesiastica condannare l'eutanasia e poi praticarla?
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Dalla conferenza episcopale statunitense circa L’ALIMENTAZIONE E L’IDRATAZIONE ARTIFICIALI
Primo quesito: E' moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in "stato
vegetativo", a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza
causare un rilevante disagio fisico?
Risposta: Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di
conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che
consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla
disidratazione.
Secondo quesito: Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in "stato vegetativo permanente", possono
essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?
Risposta: No. Un paziente in "stato vegetativo permanente" è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute
le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Uno strano concetto di dignità umana, quello che trascura il fatto che quel corpo, non governato da alcuna mente, è continuamente imbrattato
dai suoi escrementi e deve essere accudito molto di più di un cane.
E nessuna misericordia per le povere persone (di solito un familiare) chiamate ad accudire tali corpi per anni e anni, tutti i giorni, volenti
o no?