Le Dichiarazioni sull’eutanasia da parte degli ecclesiasti
Pubblicata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede il 5 maggio 1980, espose la distinzione tra mezzi proporzionati e sproporzionati, e quella fra trattamenti terapeutici e cure normali dovute
all’ammalato: «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento
precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi» (parte IV). Meno ancora possono essere interrotte le cure ordinarie per i pazienti che non
si trovano di fronte ad una morte imminente, come è generalmente il caso di coloro che versano nello "stato vegetativo", per i quali sarebbe proprio l’interruzione delle cure ordinarie a causare la morte.
Il 27 giugno 1981 il Pontificio Consiglio Cor Unum pubblicò un documento dal titolo Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, nel quale, tra l’altro, si affermava: «Rimane, invece,
l’obbligo stretto di proseguire ad ogni costo l’applicazione dei mezzi cosiddetti "minimali", di quelli cioè che normalmente e nelle condizioni abituali sono destinati a mantenere la vita
(alimentazione, trasfusioni di sangue, iniezioni, ecc.). Interromperne la somministrazione significherebbe in pratica voler porre fine ai giorni del paziente» (n. 2.4.4).
In un Discorso rivolto ai partecipanti ad un Corso internazionale di aggiornamento sulle preleucemie umane, del 15 novembre 1985, Papa Giovanni Paolo II, richiamandosi alla Dichiarazione
sull’eutanasia, affermò chiaramente che, in virtù del principio della proporzionalità delle cure, non ci si può dispensare «dall’impegno terapeutico valido a sostenere la vita né dall’assistenza con
mezzi normali di sostegno vitale», tra i quali sta certamente la somministrazione di cibo e liquidi, e avverte che non sono lecite le omissioni che hanno lo scopo «di abbreviare la vita per
risparmiare la sofferenza, al paziente o ai parenti».
Nel 1995 venne pubblicata dal Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari la Carta degli Operatori Sanitari. Nel n. 120 si afferma esplicitamente: «L’alimentazione e l’idratazione,
anche artificialmente amministrate, rientrano tra le cure normali dovute sempre all’ammalato quando non risultino gravose per lui: la loro indebita sospensione può avere il significato di vera e
propria eutanasià».
E' del tutto esplicito il Discorso di Giovanni Paolo II ad un gruppo di Vescovi degli Stati Uniti d’America in visita ad limina del 2 ottobre 1998: l’alimentazione e l’idratazione vengono considerate
cure normali e mezzi ordinari per la conservazione della vita. E' inaccettabile interromperle o non somministrarle se da tale decisione consegue la morte del paziente. Saremmo davanti ad un’eutanasia
per omissione (cf. n. 4).
Nel Discorso del 20 marzo 2004, rivolto ai partecipanti ad un Congresso Internazionale su "I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici", Giovanni
Paolo II confermò in termini molto chiari quanto era emerso nei documenti prima citati, offrendone anche l’adeguata interpretazione. Il Pontefice mise in risalto i seguenti punti:
1) «Per indicare la condizione di coloro il cui 'stato vegetativo’ si prolunga per oltre un anno, è stato coniato il termine di stato vegetativo permanente. In realtà, a tale definizione non
corrisponde una diversa diagnosi, ma solo un giudizio di previsione convenzionale, relativo al fatto che la ripresa del paziente è, statisticamente parlando, sempre più difficile quanto più la
condizione di stato vegetativo si prolunga nel tempo» (n. 2).
2) Di fronte a coloro che mettono in dubbio la stessa "qualità umana" dei pazienti in "stato vegetativo permanente", occorre riaffermare «che il valore intrinseco e la personale dignità di ogni essere
umano non mutano, qualunque siano le circostanze concrete della sua vita. Un uomo, anche se gravemente malato od impedito nell’esercizio delle sue funzioni più alte, è e sarà sempre un uomo, mai
diventerà un "vegetale" o un "animale"» (n. 3).
3) «L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.), ed alla
prevenzione delle complicazioni legate all’allettamento. Egli ha diritto anche ad un intervento riabilitativo mirato ed al monitoraggio dei segni clinici di eventuale ripresa. In particolare, vorrei
sottolineare come la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenti sempre un mezzo naturale di conservazione della vita, non un atto medico. Il suo uso
pertanto sarà da considerarsi, in linea di principio, ordinario e proporzionato, e come tale moralmente obbligatorio, nella misura in cui e fino a quando esso dimostra di raggiungere la sua finalità
propria, che nella fattispecie consiste nel procurare nutrimento al paziente e lenimento delle sofferenze» (n. 4).
4) I documenti precedenti vengono assunti e interpretati nel senso suddetto: «L’obbligo di non far mancare "le cure normali dovute all’ammalato in simili casi" (Congregazione per la Dottrina della
Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, parte IV) comprende, infatti, anche l’impiego dell’alimentazione e idratazione (cf. Pontificio Consiglio Cor Unum, Questioni etiche relative ai malati gravi e ai
morenti, n. 2.4.4; Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero
quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per
fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e
propria eutanasia per omissione» (n. 4).
Pertanto le Risposte che ora dà la Congregazione per la Dottrina della Fede si collocano nella linea dei documenti della Santa Sede appena citati e, in particolare, del Discorso di Giovanni Paolo II
del 20 marzo 2004. Due sono i contenuti fondamentali. Si afferma, in primo luogo, che la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e
proporzionato di conservazione della vita per i pazienti in "stato vegetativo": «Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che
consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». Si precisa, in secondo luogo, che tale mezzo ordinario di sostegno vitale va assicurato anche a coloro che versano nello "stato
vegetativo permanente", in quanto si tratta di persone, con la loro dignità umana fondamentale.
Nell’affermare che la somministrazione di cibo e acqua è moralmente obbligatoria in linea di principio, la Congregazione della Dottrina della Fede non esclude che in qualche regione molto isolata o di
estrema povertà l’alimentazione e l’idratazione artificiali possano non essere fisicamente possibili, e allora ad impossibilia nemo tenetur, sussistendo però l’obbligo di offrire le cure minimali
disponibili e di procurarsi, se possibile, i mezzi necessari per un adeguato sostegno vitale. Non si esclude neppure che, per complicazioni sopraggiunte, il paziente possa non riuscire ad assimilare
il cibo e i liquidi, diventando così del tutto inutile la loro somministrazione. Infine, non si scarta assolutamente la possibilità che in qualche raro caso l’alimentazione e l’idratazione artificiali
possano comportare per il paziente un’eccessiva gravosità o un rilevante disagio fisico legato, per esempio, a complicanze nell’uso di ausili strumentali.
Questi casi eccezionali nulla tolgono però al criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo
naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso sarà quindi da considerarsi ordinario e proporzionato, anche quando lo "stato vegetativo" si prolunghi.
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Ciò che, invece, può costituire un onere notevole è il fatto di avere un parente in "stato vegetativo", se tale stato si prolunga nel tempo. E' un onere simile a quello di curare un tetraplegico, un
malato mentale grave, un Alzheimer avanzato, ecc. Sono persone che hanno bisogno di un’assistenza continua per mesi o addirittura per anni. Ma il principio formulato da Pio XII non può essere
interpretato, per ragioni ovvie, nel senso che allora è lecito abbandonare a se stessi i pazienti, la cui cura ordinaria impone un onere consistente per la loro famiglia, lasciandoli quindi morire.
Non è questo il senso in cui Pio XII parlava di mezzi straordinari.
Tutto fa pensare che ai pazienti in "stato vegetativo" debba essere applicata la prima parte del principio formulato da Pio XII: in caso di malattia grave, c’è il diritto e il dovere di mettere in
atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita. Lo sviluppo del Magistero della Chiesa, che ha seguito da vicino i progressi della medicina e i dubbi che essi suscitano, lo conferma pienamente.
Evangelium vitae - Ioannes Paulus PP. II
65. Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e
nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. «L'eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati».
Da essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto «accanimento terapeutico», ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati
ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si può in coscienza
«rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi». Si dà certamente
l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati
rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di
fronte alla morte.
Nella medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette «cure palliative», destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia e ad assicurare al
tempo stesso al paziente un adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per sollevare il
malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi
antidolorifici per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole alla passione del Signore, tale comportamento «eroico» non può essere ritenuto doveroso per tutti.
Già Pio XII aveva affermato che è lecito sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare la coscienza e di abbreviare la vita, «se non esistono altri mezzi e se, nelle
date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e morali». In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il
rischio: semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, «non si deve privare il moribondo della coscienza di sé
senza grave motivo»: avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza
all'incontro definitivo con Dio.
Fatte queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio,
in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed
insegnata dal Magistero ordinario e universale.
Una tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del suicidio o dell'omicidio.
La nota del Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica
(http://www.centrodibioetica.it)
diretto dal prof. Adriano Pessina:
I giudici della Corte d'appello civile di Milano hanno autorizzato il padre di Eluana Englaro, in qualità di tutore, ad ottenere l’interruzione del trattamento di idratazione ed alimentazione che da
sedici anni permette ad Eluana di continuare a vivere. Si deve constatare la gravità di una simile decisione che di fatto scardina il principio della non disponibilità della vita umana e del dovere,
proprio di ogni società civile, di non legittimare forme di abbandono terapeutico ed assistenziale nei confronti dei propri cittadini che non sono in grado di provvedere a loro stessi.
Di fatto viene attribuito ad un tutore un vero e proprio potere di vita e di morte nei confronti della persona che gli è affidata, stravolgendo lo stesso significato della tutela. Non è pensabile che
il miglior interesse di una persona, che non sta subendo alcuna forma di accanimento clinico, sia la morte, la quale non costituisce mai un bene da tutelare. Questa decisione, inoltre, introduce un
serio e grave problema deontologico nella medicina: sospendere trattamenti ordinari come quelli somministrati ad un paziente in stato vegetativo a motivo di una decisione che non ha fondamento
clinico, significa di fatto scardinare il dovere fondamentale del prendersi cura dei pazienti che non sono in grado di intendere e volere. Quanto al riferimento di una presunta e precedente volontà
espressa da Eluana di non voler vivere in condizioni nelle quali non le fosse possibile l’esercizio della coscienza vigile, pur essendo in sé comprensibile, non può determinare nessuna azione volta
all’abbandono assistenziale,né legittimare forme di eutanasia. Risulta inoltre inaccettabile e viziata da una erronea concezione antropologica, definire la vita personale di chi si trova in condizioni
di stato vegetativo come pura vita biologica. La coscienza umana non definisce l’identità personale, ma semplicemente la manifesta. Per questo la cura delle persone in stato vegetativo si configura
come doverosa.
L’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione comporteranno una lenta agonia di Eluana Englaro, colpevole soltanto di essere ancora viva. Ci auguriamo che questa decisione non venga attuata e
ci appelliamo, ancora una volta, al sig. Englaro affinché permetta che Eluana continui a vivere. I parenti dei pazienti che sono nelle condizioni di Eluana Englaro e che in questi anni hanno
combattuto grandi e significative battaglie culturali e sociali per rivendicare la dignità dei loro cari e il loro diritto ad essere accuditi e custoditi con cura ed affetto in strutture adeguate,
rischiano di veder vanificata in questa sentenza la loro meritevole opera di civiltà.
Centro di Ateneo di Bioetica Università Cattolica del Sacro Cuore Via Nirone 15, 20123 Milano €Tel. 02.7234.2922 ax 02. 7234.2207 E-mail: [email protected] www.centrodibioetica.it