Aggressività, descrizione e riflessioni
Ho letto definizioni d'ogni tipo sull’aggressività e vorrei tentarne una
un po' tutta mia e molto sintetica: "Un atteggiamento istintivo o
ragionato utilizzato per espandere o difendere il proprio dominio
individuale o collettivo, sempre a danno di altri”.
L’aggressività si scatena, quindi, solamente in presenza di conflitto.
Non è certo aggressivo l’atto di raccogliere e conservare un sasso che
non appartiene a nessuno, ma, lo stesso gesto, assumerebbe questo
attributo, se fosse destinato a colpire o se l’oggetto stesso
appartenesse ad altri non disposti a cederlo.
Con l’aggressività, quindi, l’uomo manifesta e tende a realizzare il
suo desiderio di supremazia e sopraffazione, che è alla base del suo egoismo innato.
Più è forte l’istinto di sopravvivere a sé stesso e più sarà forte
il desiderio di dominare e aumentare i propri possedimenti, e perciò il
bisogno di ricorrere all’aggressività ed alla violenza.
Per capire l’aggressività e non condannarla a priori bisogna rifarsi al
principio della selezione naturale Darwiniana, che non sarà la
risoluzione di tutti i misteri dell’Universo, ma non è neppure tutta da buttare.
Laddove c’è conflitto, è premiato con la sopravvivenza (e quindi con
la possibilità di procreare, che è l’obiettivo essenziale d'ogni razza
vivente) solo l’essere che ne esce vittorioso.
Il debole, in natura, è tendenzialmente destinato a soccombere senza
riprodursi, vale a dire senza tramandare le sue caratteristiche, dunque è
"punito” dalla natura stessa, e, anziché essere aiutato dai suoi più
forti consimili, sarà privato dei suoi beni ed isolato.
Questa legge spietata, se l'uomo la esercitasse, ci farebbe sprofondare all’età della pietra.
L’uomo, durante la sua evoluzione, si è convinto sempre di più che
poteva aumentare le sue personali probabilità di sopravvivenza sfruttando
la maggior forza derivante dalla collaborazione con altri esseri simili a
lui, oltreché con l’uso di adeguati utensili.
Possiamo facilmente immaginare le difficoltà incontrate da un cacciatore
solitario nella preistoria. Era senz'altro difficile inseguire la preda da
solo, difficile colpirla per catturarla e difficile anche trascinarla
nella propria grotta, evitando le minacce degli altri uomini o animali.
E’ ovvio che, da animale dotato d’intelligenza qual è, l’uomo abbia
ben presto capito che insieme con altri cacciatori le probabilità di
successo sarebbero aumentate parecchio e così pure l’entità delle
prede o del raccolto.
Avrà anche notato che altri animali, cacciando in gruppo, riuscivano a
procurarsi più facilmente cibo di quanto riuscisse a fare lui da solo.
Una volta imparata la tecnica di cacciare in collaborazione con altri
uomini, la tentazione di non spartire il bottino con gli altri,
(garantendosi così maggior cibo e pelli per sé e la sua famiglia), deve essere stata molto forte.
Solamente "L’interesse e la paura sono i principi della società”
dice
Hobbes.
E
Rousseau ribadisce che "Ciò che l’uomo perde con il contratto
sociale è la sua libertà naturale; il diritto illimitato su tutto ciò
di cui tenta e riesce ad impadronirsi", mentre "Ciò che guadagna
è la libertà civile e la proprietà di tutto ciò che possiede”.
Problemi analoghi, ovvero necessità di compromesso tra il vantaggio dell’unione
per essere più forti e lo svantaggio della spartizione dei beni acquisiti
e rispetto delle proprietà altrui, l’uomo deve averli incontrati anche
in tutte le epoche in cui s’è prevalentemente dedicato all’agricoltura.
Anche in questo caso la comunione di diritti sul raccolto implicava in
ogni caso una comunione di doveri, senz’altro non altrettanto bene accetti, come sempre.
Naturalmente queste considerazioni vanno viste come "tendenze
comportamentali” (o "tentazioni”, se vogliamo), generalizzando un
comportamento che, come sempre, non si può categoricamente affibbiare a qualsiasi individuo.
Ci sono, e ci sono sempre stati, infatti, moltissimi uomini ai quali non
si potrebbe certo attribuire nè ambizione nè prepotenza e tantomeno
aggressività e questo può dipendere dal loro innato carattere umile e
pauroso, così come va riconosciuto che ci sono uomini profondamente
consapevoli dei propri istinti, ma capaci di dominarli completamente, e
che sanno convivere in modo civile e pacifico con tutti gli altri, senza
per questo essere considerati paurosi, deboli o ignoranti.
Direi, anzi, che la capacità di convivere pacificamente è il più nobile
(e difficile!) traguardo cui aspirare e che offre, come compenso, anche un'incomparabile serenità.
Vorrei però insistere sul fatto che, il più delle volte, non c’è
segno d’aggressività solamente laddove non se ne presenti la tentazione di prevaricare gli altri.
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Lo stesso individuo che in un determinato contesto sociale, ambientale e
culturale, si comporta con elevato "senso civile”, posto in condizioni
particolarmente avverse, come, ad esempio, l’insorgere di una guerra, la
minaccia di una grave carestia, la soppressione delle libertà da lui già
acquisite, la costrizione a vivere in uno spazio molto limitato, la
scoperta di un tradimento, la sottomissione ad un ricatto, ecc., può
trasformarsi in un essere improvvisamente aggressivo e pericoloso, pronto
a compiere qualsiasi genere d’azione.
Abbiamo moltissimi esempi anche in natura di questo improvviso processo di trasformazione.
Il topo è tendenzialmente pauroso e diffidente e quindi, se appena può,
di fronte ad una minaccia cerca di scappare, ma se è bloccato in un
vicolo cieco e si rende conto che non ha scampo, diventa aggressivo e può
anche cercare di contrattaccare e mordere.
Come il topo, ci sono tantissimi altri animali che seguono lo stesso comportamento.
Ci sono, poi, razze di pesci che curano la loro prole con infinito amore,
ma che se sono poste in un territorio troppo ristretto, come un piccolo
acquario sovraffollato, sono capaci di divorare i propri piccoli, pur di
mantenere le condizioni di sopravvivenza del gruppo adulto.
Anche le capre, che di solito convivono pacificamente, all’arrivo di un
nuovo esemplare si coalizzano e lo prendono a cornate cercando di scacciarlo dal loro territorio.
Ci sono cani che fuori del loro ambiente gironzolano con la massima
indifferenza e che, come sono rimessi nel recinto, si scatenano come belve su chiunque cerchi d’avvicinarsi.
Quanti tragici casi di sottovalutazione dell’aggressività, molto spesso
latente, sono balzati sulla cronaca negli ultimi anni!
Ci sono cani, che non hanno mai creato alcun problema ai loro proprietari, che di punto in bianco sbranano un bambino!
Le ragioni di questo cambiamento sono spesso molto difficili da
ricostruire, anche se si potrebbe spesso scartare l’ipotesi di un attimo
di follia, perché è invece assai più probabile che scattino delle
reazioni istintive o perché l’animale si trova ad affrontare una nuova
situazione che lo vede impreparato o perché supera la sua capacità di
tenere inibito l’istinto, come ha cercato d’insegnargli l’uomo.
Molto spesso i problemi di questo tipo nascono da un cattivo addestramento
del cane, ed è anche per questo motivo che sostengo che gli animali non
dovrebbero mai essere addestrati, ma andrebbero semplicemente accettati come sono.
Chiarito che l’aggressività può essere presente anche in individui (e
animali) che non la manifestano frequentemente, possiamo affermare che il
compromesso tra il bisogno di socializzare (più che la vocazione) ed il
desiderio di possedere qualsiasi cosa utile a noi stessi, è sempre stato
un equilibrio precario e forse sempre lo sarà, perché l’uomo tende ad
accumulare infiniti diritti, senza cedere ad alcun dovere verso gli altri
e per bloccare questa tendenza deve anche lui tenere inibita la sua potenziale aggressività.
Non ci sono leggi, governi, religioni, polizie di stato che possono in
assoluto evitare il continuo ricorso alla violenza per perseguire l’inarrestabile
desiderio di ricchezza manifestato da molte persone.
Ma perché, nell’uomo, è così prepotente il bisogno di possedere?
Perché il possesso, sia di un territorio, che di un’arma, di cibo come
d'indumenti, d'animali o anche d'altri uomini, di una capanna, di figli,
nonché d'idee, ecc., rappresenta una garanzia contro la propria
vulnerabilità e mortalità; una "assicurazione sulla vita”, dunque.
Sembra molto più rassicurante "avere” piuttosto che "essere”, direbbe Fromm.
Possedere significa indiscutibilmente "essere forti” e poter difendere
da qualsiasi minaccia la propria vita. Negli animali questo principio è
quasi sempre racchiuso esclusivamente nella loro forza fisica e
adattabilità all’ambiente, perché non hanno la capacità di crearsi
altre risorse, naturali o artificiali, come ha così bene imparato a fare l’uomo.
La storia del genere umano è tutta uguale; sembra un semplice monotono
elenco di brutalità, omicidi, usurpazioni, furti e prepotenze di ogni
genere, perpetrato dal singolo o da una collettività, ma sempre per il
raggiungimento di un unico scopo: la conquista di qualcosa che non appartiene in partenza.
Ma se, perciò, in chiave di lettura naturalistica, questo principio di
comportamento gioca a favore della razza umana, (visto che chi è più
forte meglio la protegge), perché, allora, ci siamo sempre dati delle
leggi che condannano e puniscono l’aggressività e incoraggiano la difesa del più debole?
Non è, questo, un concetto che va contro natura?
Se noi esaminassimo per un attimo la situazione di una razza vivente
qualsiasi (che non sia l’uomo) in modo esclusivamente utilitaristico,
saremmo sicuramente portati ad apprezzare di più quella razza che meglio
di qualsiasi altra sappia esercitare il suddetto principio di forza.
Ma dobbiamo tenere conto del fatto che l’uomo "sa” che la sua
capacità di sviluppare forza aggressiva non basta a difenderlo contro
ogni pericolo e anzi potrebbe diventare talmente devastante da minacciare la sua stessa sopravvivenza come razza.
Non lo sa solamente da quando ha messo in atto ordigni capaci di
distruggere tutta la Terra; lo sa da quando ha capito, consciamente o
inconsciamente, che è comunque vulnerabile. C’è una debolezza che egli
non è mai riuscito a sconfiggere ed una proprietà che non è in grado di difendere ad oltranza: la sua vita.
Lo sa da quando ha scoperto che anche il più forte degli esseri umani
può cadere in un istante. Lo sa da quando ha conosciuto l’effetto
disarmante delle malattie, contro le quali è ancora oggi così inerme. Lo
sa da quando ha riconosciuto il caso e la fatalità, contro cui non ha scampo.
E proprio più s’è reso conto della sua debolezza infinita nei
confronti della natura, più si è ribellato ad essa, cercando di
comprenderla per controllarla e sgominarla... e più ne è stato invece ancora una volta sconfitto!
Ed ecco l’aggrapparsi a sogni e speranze di altri mondi oltre la vita;
la ricerca affannosa, patetica e disperata della propria immortalità,
anche attraverso infinite forme di superstizione e di religione.
Lo stesso timore di ritrovarsi debole da un minuto all’altro e di poter
aver bisogno d’aiuto, questo incubo, lo ha sempre costretto, e continua
a costringerlo, a scendere all’eterno compromesso sociale: tendere
istintivamente ed egoisticamente a rinforzare sé stesso, ma creare anche
leggi che proteggano i deboli, perché oggi debole può essere qualcun
altro, ma prima o poi può essere lui stesso.
Purtroppo è inesorabilmente perdente su questo fronte e perciò non sarebbe questa la battaglia da compiere.
La conoscenza della sua vulnerabilità, che nasce dal pensiero concettuale
e dal linguaggio verbale, lo ha privato della sicurezza che gli veniva
offerta dall’istinto ed ha innescato la spirale del progresso
tecnologico e scientifico, ma non gli ha ancora fornito un nuovo
adattamento altrettanto efficace a queste conoscenze, né tanto meno la
capacità d’usare con saggezza i nuovi strumenti da lui creati.
Lo spirito competitivo degli individui, che si è poi innestato nelle
società industriali e commerciali moderne, nonché i modelli imposti dal
più recente consumismo, stanno producendo altri effetti disastrosi: l’uomo
contemporaneo soffre facilmente di pressione alta, atrofie renali, ulcere
gastriche, depressioni e persistenti nevrosi, oltre a tutti i mali di sempre.
L’eccessivo ritmo dei suoi impegni lo ha distolto dal ragionamento
disinteressato e non utilitaristico e gli sta soffocando la capacità di
apprezzare quello che ha già conquistato e l’aspirazione a migliorare
qualitativamente piuttosto che quantitativamente.
L’uomo moderno tende sempre più a costruire per il domani anziché a
vivere serenamente l’oggi, e quest’ansia lo corrode fino a togliergli il gusto per qualsiasi cosa.
Autore: Enrico Riccardo Spelta
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